Deutsche Bank, il colosso tedesco della finanza, è in crisi. Una crisi senza via di uscita, almeno così sembra dai dati, che non solo fanno vedere un crollo del valore delle azioni, ma presagiscono un ulteriore calo. Una crisi in atto da ormai molto tempo che si è manifestata effettivamente solo da poco. E anche se la parola crisi non è stata, volutamente, mai pronunciata dai vertici, il minimo storico toccato dalla quotazione in borsa e la decisione di chiudere circa 200 filiali sul territorio ne sono sintomi inequivocabili.
Cosa ha portato però una delle maggiori banche tedesche, ed europee, a questo punto? Se sono circa dieci anni che in qualche modo questa situazione si sta trascinando, sempre sull’orlo del baratro, è stata davvero così inattesa la caduta repentina registrata nell’ultimo anno? Sicuramente no, specialmente per gli addetti ai lavori. La crisi di Deutsche Bank per gli analisti è solo il frutto di quanto accaduto in questi anni.
Deutsche Bank nell’ultimo anno: come nasce la crisi
Cerchiamo di riepilogare come si è arrivati nell’ultimo anno alla tragica situazione attuale. Ricordiamo che ad ottobre dello scorso anno, il colosso tedesco aveva annunciato un piano di ristrutturazione. Il piano si era reso necessario in seguito alla mega multa di 2,5 miliardi di dollari comminata in seguito allo scandalo Libor.
Questa azione prevedeva la diminuzione del personale di 9 mila unità, il taglio di 6 mila consulenti esterni e il ritiro della banca da 10 nazioni. Nonostante il piano di rientro programmato, in seguito all’ulteriore multa di 275 milioni di dollari per avere fatto affari in paesi sotto sanzioni USA, a gennaio di quest’anno la società registra perdite nel 2015 per 6,8 miliardi di euro. Il co-amministratore delegato del gruppo a febbraio sostiene che non ci sono problemi e l’azienda è solida.
Un modo per rassicurare impiegati e investitori, che si scontra con la scoperta a marzo 2016 dell’enorme quantità di derivati presenti nel portafoglio della società. Si parla di investimenti in derivati per 52 mila miliardi di euro. In estate, complice anche la Brexit, essendo Deutsche Bank la maggiore banca europea con sede a Londra, gli analisti sottolineano il forte rischio sistemico a cui è sottoposta. A complicare ulteriormente la situazione, la Federal Reserve annuncia che Deutsche Bank non ha superato gli stress test negli Stati Uniti. La motivazione, come è possibile leggere nella relazione al riguardo, è una “scarsa gestione del rischio e scarsa pianificazione finanziaria”. In seguito a quest’ultimo colpo le azioni della banca toccano il minimo storico in 30 anni ed oggi è possibile acquistarle per un valore pari all’ 8% di quanto valevano nel 2007. A luglio inoltre è stato annunciata la chiusura di 188 sportelli su 723 entro il 2017, anche se nessuno ha ancora nominato la parola crisi. I tagli, da nota ufficiale, rientrano in un piano di ottimizzazione dei costi dovuto all’aumento dei clienti che non usufruiscono degli sportelli, privilegiando l’utilizzo dei servizi online.
Le cause dietro il crollo di Deutsche Bank, si poteva prevedere?
Cosa ha portato il colosso tedesco a questo punto? Prima di tutto le enormi perdite del 2015, perdite dovute ad un insieme di fattori e non legate unicamente alle multe ricevute. Tra di essi ricordiamo l’obbligo di adeguamento ai requisiti patrimoniali imposti a tutte le banche europee dalla Banca Centrale Europea, le spese legali che la società ha dovuto supportare in seguito agli scandali in cui è stata coinvolta, ma anche e forse soprattutto la svalutazione di determinate partecipazioni in Germania e in Cina. In secondo luogo, come già sottolineato, preoccupante è l’enorme investimento in derivati, investimenti dal rischio elevato e il cui eventuale crollo farebbe crollare tutta la società come un castello di carte.
La situazione finanziaria della banca tedesca inoltre è fin troppo delicata, con un rapporto tra il valore degli attivi e il patrimonio della banca ormai al di sotto di 1 a 25. Andando indietro nel tempo, possiamo vedere come alcuni cattivi investimenti abbiano inciso in negativo sul capitale della società, ad esempio nel 2009 il risultato di un investimento avrebbe causato delle perdite del 76% (dividendi inclusi). In quell’anno, mentre i vertici parlavano di solidità dell’azienda, in realtà si registravano perdite per 12 milioni di dollari, nascoste per evitare il rischio di un intervento bail-out. Nel 2013, invece, dopo anni di difficoltà l’azienda ha dovuto ammettere di avere necessità di capitale, e questo ha portato ad un aumento di 3 miliardi del capitale sociale. A questi si sono poi aggiunti 1,5 miliardi di euro nel 2014 e successivamente altri 8 miliardi. Non una crisi prevedibile, piuttosto una lenta agonia nascosta al mercato.